profilo linea lavori linea mostre linea pagina d'ingresso linea contatti
 

Comasca di nascita, milanese di adozione, Vania Elettra Tam è uno dei frutti artistici della Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e della scuola di Grafica Pubblicitaria del Castello Sforzesco. L’ironia e la seduzione delle sue sceneggiature si sovrappongono ad una velata critica sociale ma dallo sguardo sempre lieve, divertito e surreale. I rifugi casalinghi, la delicatezza e l’instabilità dei suoi microcosmi quotidiani l’hanno fatta conoscere ed apprezzare in Italia e all’estero, dove ha esposto in città come Praga, Londra, Miami e San Diego e Cuba. Si segnalano in particolare le mostre personali milanesi “Un giorno di ordinaria pulizia” a cura di Igor Zanti e “Cronaca Rosa” a cura di Alessandra Redaelli. Fra le collettive: “Un’altra storia” in San Carpoforo a Milano a cura di Edoardo di Mauro; “Aquisizioni” al Museo Parisi Valle di Maccagno a cura di Claudio Rizzi; la 54° Biennale di Venezia - Padiglione Italia Regione Lombardia a Palazzo Te di Mantova e a Palazzo dei Congressi - Sala Nervi a Torino a cura di Vittorio Sgarbi. “Coexist – Eight different kind of fantastic art” a Lecce curata da Ivan Quaroni; "Iside Contemporanea" a cura di Ferdinando Creta al Museo Arcos di Benevento; "Plurale Femminile" a cura di Alessandra Redaelli a Piacenza e Milano; "Aliens - Le forme alienanti del contemporaneo" organizzata da Frattura Scomposta Art Magazine a Venezia, Milano, Bologna, Como, Lecce e Ferrara.

2012

Tratto da un testo di Ivan Quaroni

scritto in occasione della mostra “Coexist. Eight different kind of fantastic art”

8 dicembre 2012 – 26 gennaio 2013 - E-lite studiogallery - Lecce

“…Una pittura Pop, di chiara ascendenza illustrativa, è quella di Vania Elettra Tam, che usa l’autoritratto come pretestuoso leit motive per indagare tic e ossessioni del femminino contemporaneo. L’artista ritrae i suoi alter ego impegnati in banali azioni quotidiane, come truccarsi, farsi il bagno o cucinare, proiettando sulle mura domestiche ombre fantastiche, che non collimano con i gesti e le movenze reali dei protagonisti.
Vania Elettra Tam costruisce una narrazione ironica, che scorre parallelamente alle vicende rappresentate in primo piano, come una sorta d’ipertesto visivo. La sua è, dunque, una figurazione che mescola mimesi realistica e trasfigurazione fantastica, disseminando le immagini di dettagli indiziari, che suggeriscono una chiave d’interpretazione. È il caso dell’opera “lacrime di coccodrillo” dove, accanto alla figura della protagonista, compare un piccolo foglietto con la sequenza numerica di Fibonacci, un modello matematico usato per descrivere i ritmi di crescita e di riproduzione naturali…”


testo di Laura Angelone

scritto in occasione della mostra personale "cielo, cielo... mi manca"

22 ottobre - 30 novembre 2012 - Interior Gallery - Milano

Vania Elettra Tam raffigura donne malinconiche, squisitamente impacciate, perse in un mondo di convenzioni, intrappolate in tele quadrate che diventano le loro piccole celle; impaurite… ma da cosa?

Partendo dal manifestarsi di un fatto reale, quale la rottura di un tacco o la percezione delle proprie paure, “cielo…un ragno!”, esse sono chiamate a fare i conti con il loro inconscio; l’attimo in cui questo accade diventa l’“epifania”, l’episodio rivelatore che mostra i significati più profondi dell’esistenza.
Il fascino del lavoro è proprio qui nascosto. Ecco che si apre “un altro mondo” dal sapore onirico e misterioso, che invita lo spettatore a giocare con le forme, con le ombre e spinge a guardare con attenzione, poiché nulla è come sembra.

La prima opera presentata in questa mostra rivela già dal titolo tale intendimento, “nel bosco non c’è campo”: si viene catapultati immediatamente in una dimensione favolistica e sollecitati ad andare oltre il reale; proprio il bosco, con i suoi alberi, dall’aspetto grafico e dalla struttura verticale, rimanda alla presa di coscienza dei soggetti.

Le opere mostrano un taglio fotografico ben equilibrato: le donne sono inquadrate nella parte destra del quadro, la proiezione delle loro sagome le accompagna nel lato sinistro e il mondo onirico le circonda tutt’attorno, andando oltre i confini della tela e trascinando nella sua morsa sognante lo spettatore stesso.

In queste tele Vania sembra allontanarsi dallo stile di Alex Katz, a cui meglio si accostava nei suoi primi lavori; lo sfondo piatto, color pastello diventa l’immediato tramite tra il mondo reale e quello del sogno. Le forme, infatti, si rivelano più consistenti, definite da pennellate polverose. L’utilizzo di tonalità chiare rafforza la condizione di incertezza e la presenza del nero, più deciso nell’accompagnare ogni donna raffigurata, rimanda nuovamente al lato oscuro con il quale ognuna di esse si deve misurare.
Inevitabile è pensare alle suggestive atmosfere di Edward Hopper; Vania di lui coglie la particolarità di immortalare l’attimo che svela il senso più introspettivo della scena, ma nello stesso momento palesa l’unicità della sua ricerca. I movimenti, infatti, sono pervasi da reale dinamicità e ciò che maggiormente colpisce sono le espressioni enfatizzate e fortemente caricate dei volti: ispirazione da ricercare nelle illustrazioni di Walter Molino e Norman Rockwell, autori di cui Vania subisce fortemente il fascino.

L’atmosfera onirica ricreata in ogni opera, inoltre, non disdegna neppure l’incanto del mondo del cinema d’animazione: come non notare nelle luci, nelle ombre e nelle sagome del bosco quel mistero dei primi film di Walt Disney, che tanto ammaliarono e tuttora ammaliano bambini e adulti! Un eclettismo nella ricezione degli stimoli che ha per risultato un’ironia tutt’altro che banale e una componente comunicativa immediata, che conduce lo spettatore ad andare a fondo e a riflettere sorridendo.

Intrinseco di queste opere è il bisogno di recuperare quella dimensione fanciullesca che aiuta a prendersi meno sul serio e a beffare quelle situazioni che sembrano così disperate. Il recupero di un passato, quello in cui collezionare e scambiare figurine bastava per essere felici, quella “voglia di leggerezza”, che si trasforma in angoscia se contaminata dagli stereotipi.

L’indiscutibile forza di questi lavori è celata all’interno delle ombre. Esse incombono, avvolgono e coinvolgono, ma all’interno della scena non sembrano essere percepite, o meglio, si rivelano consapevolmente solo nella proiezione delle paure dei personaggi. Esse diventano un rifugio, la difesa contro quella luce che prepotentemente incombe da destra e verso la quale ogni azione, però, è indirizzata.
I bambini non hanno paura, i bambini non sono mai soli, i bambini ridono di un tacco rotto. Eppure questo mondo incantato non deve intrappolare, ma deve insegnare a vivere liberi il proprio tempo. Impaurita dunque da cosa?
L’invito di Vania diventa chiaro: “Cielo… fai quel salto, diventa donna!”.

2010

"Disperate con brio.
Ovvero, lo zen e l’arte della manutenzione della solitudine domestica" di Alessandra Redaelli
testo critico scritto in occasione della mostra personale "Cronaca Rosa" - Wannabee Gallery - Milano

Quando qualche anno fa fu trasmessa per la prima volta la serie televisiva Desperate housewives, il pubblico lì per lì concentrò la propria attenzione sulle curve di Eva Longoria, sulle sue acrobazie nella vasca da bagno insieme al giardiniere diciassettenne e sul fatto (una notizia bomba, mamma mia! Quasi quanto l’invenzione della pillola anticoncezionale…) che le protagoniste fossero belle, sexy e desiderabili nonostante veleggiassero tutte intorno ai 40 anni. Ci volle qualche puntata perché con un brivido ci si rendesse conto di che cosa serpeggiava sotto l’eleganza patinata di Wisteria lane.
Perché al di là dei colpi di scena facili, di qualche omicidio, di un figlio che per punire la madre si fa trovare a letto con il suo amante (suo della madre, s’intende), fino a un tumore così ben portato da essere quasi glamour, c’è quella voce narrante, calda, tranquilla, suadente che, guarda caso, è quella della quinta casalinga, morta suicida nell’antefatto e mai nemmeno intravista dal pubblico.
E così, malgrado i sorrisi, alla fine di ogni puntata resta in bocca allo spettatore un retrogusto amarognolo. Come la sensazione di sentirsi scivolare anche lui in quelle sabbie mobili di convenzioni, segreti, bugie e soprattutto solitudine. Un mare di solitudine.
Ecco, Vania Elettra Tam è un po’ così. E’ una filosofa del nostro tempo che con un tono leggero, quasi da talk show, riesce a dire cose davvero terribili. Condita di un’ironia sagace e crudele, e indagata con una lucidità di visione per certi versi ancora più spietata rispetto alla serie americana, è questa solitudine che si respira – affogata nel rosa – negli ultimi dipinti di Vania. Protagoniste, ancora una volta, le sue donne.
Le sue donne nel 2004 cercavano di definire la propria identità montandosi pezzo per pezzo, nel 2007 si interrogavano sole, in case buie, appena illuminate dallo schermo di un computer o dalla fredda lampadina del frigorifero, poi nel 2008 hanno acceso la luce per scoprirsi prigioniere di cucine-trappola che le risucchiavano dentro elettrodomestici cannibali o di bagni che lasciavano loro solo lo spazio di un sogno ad occhi aperti mentre, in piedi nel bidet ad aspettare che la crema depilatoria facesse effetto, si trasformavano per qualche istante in veneri nascenti dalle acque.
Ora, con questa nuova serie, è come se le ragazze avessero fatto un altro passo avanti. Verso la liberta? Verrebbe da chiederselo. Io, malgrado tutto questo rosa, non ci giurerei… Quasi tutti i dettagli ambientali sono spariti. Resta solo la ragazza immersa nella sua fantasticheria.
Può essere Cappuccetto Rosa che siede accanto al suo cestino pieno di detersivi e attrezzi per le pulizie (e a guardarla lì, con la guancia appoggiata alla mano, viene proprio da pensare che si sia fermata ad aspettare il lupo… d’altra parte cosa c’è meglio di un lupo per spezzare la monotonia…?), può essere una Serena Williams in grembiulino che improvvisa un servizio con uovo e padella, oppure può essere una Charlie’s Angel in tubino nero che guarda lo spettatore dritto negli occhi puntandogli contro un detergente rosa shocking.
Indiscutibilmente allegre – quando ridono con il vento tra i capelli afferrando un coperchio di pentola come un volante, e intanto i piedi pestano su tre spugnette abrasive – sfoggiano sorrisi che insinuano una sottile inquietudine, così in bilico come sono tra sfrontata autosufficienza e lucida follia. Perché quello che dovremmo tenere a mente è che queste cose le abbiamo fatte tutti. Sì, insomma, forse non ci siamo messi in piedi nel bidet pieno di schiuma viscida, rischiando di lasciarci l’osso del collo.
Ma, suvvia, chi non ha mai cantato davanti allo specchio del bagno vestita (o vestito, questa non è una mostra solo sulle donne… o non era ancora chiaro?) solo di un asciugamano! E da lì a tirare di fioretto con una schiumarola, puntando magari il gatto che ci guarda con le orecchie dritte, poco ci manca. E se non ci siamo sdraiati sull’asse da stiro come su una tavola da surf cullata dalle onde, è forse perché il nostro asse da stiro aveva l’aria un po’ pericolante e non eravamo proprio sicuri che fosse in grado di reggere il nostro peso… In fondo che male c’è? Che male c’è ad improvvisare un burlesque con un imbuto su un seno, per poi sfilarsi languidamente un paio di lunghi guanti di gomma? O a leccare la panna montata sulla punta della frusta, sognando un po’… Già, il sesso.
La grazia spudorata con cui Vania parla di sesso mi ricorda un po’ i primi romanzi di Erica Jong. Un’altra generazione, certo: tutto da imparare. Però nelle pagine di Paura di volare c’era una sincerità per certi versi commovente. Anche lì ci si metteva un po’ a trovarla – figuriamoci – dietro l’abbondanza di descrizioni anatomiche dettagliate senza pietà, di odori, sapori e immancabili risvolti psicanalitici dell’amplesso. Però la chiave di tutto era proprio la sincerità disarmante (e, diciamolo, era proprio quella che aveva messo a un sacco di gente una paura del diavolo…).
E’ la stessa sincerità che fa dipingere a Vania – davanti ad un’Alice molto ma molto meravigliata – una strana specie di coniglio. Un coniglio rosa, senza orecchie, con due coniglietti che gli spuntano dai lati e dotato di un potente motore a pile… Un vibratore? Apriti cielo! E’ questa la pietra dello scandalo? La conferma tecnologica che la donna, volendo, potrebbe bastare a se stessa…? (… se non fosse così romantica da annegare i suoi sogni in un magma di glassa rosa).
La risposta non c’é. Vania non la dà. Da dentro i suoi dipinti, dove si autoritrae insieme alle amiche più care, oppure da fuori, con i suoi occhioni spalancati sul mondo e quella sua aria da Trilli che ogni tanto ti costringe a guardare se sotto le scarpine rosa tocca davvero il terreno o se, come sembra, si libra qualche centimetro più su, osserva tutto quanto con un sorriso indecifrabile stampato sul viso.
Insomma, se il suo sventolante vessillo rosa sia la bandiera di una solitudine disperata o di una libertà affermata sta a noi deciderlo. Una cosa è certa, però: tristi o felici le pink ladies sanno il fatto loro. Guardiamo il video: l’aria distratta, la cucina disseminata di attrezzi per fare una torta, la ragazza si aggira con una ciotola dove galleggiano delle uova. Poi allunga la mano, guardando altrove afferra un oggetto e comincia a mescolare. Solo dopo un po’ aggrotta la fronte, solleva il frullino e… eccolo lì! Il coniglio di Alice! Lei lo guarda qualche istante un po’ perplessa, poi, decisa, assaggia. Mmm… a me non la conta giusta. Secondo me lo sapeva già, dai… E che cosa ci facesse il coniglietto dimenticato in cucina, be’, scopriamocelo da soli…

------------------------------------------------

"Les choses en rose" di Silvia Pettinicchio
testo d'introduzione del catalogo "Cronaca Rosa", mostra personale tenutasi in Wannabee Gallery a Milano

Les choses en rose, questo era il primo titolo di una delle più famose canzoni nella storia della music leggera, scritta da Edith Piaf nel 1945. Quei versi, musicati dal pianista Louis Guglielmi, divennero un successo mondiale e la canzone dell’amore romantico par excellence. L’espressione idiomatica francese “voir la vie en rose” ha il suo esatto equivalente nell’italiano “vedere la vita rosa”, un invito ad essere ottimisti e privi di preoccupazioni per il futuro. Nel testo, la Piaf ribadisce la sua incrollabile fede nell’amore e il suo ingenuo ottimismo, temi, questi, che furono costanti nelle sue canzoni. Il rosa dunque, come simbolo di leggerezza e joie de vivre.
Ma anche del femminile, della dolcezza, della giovinezza, della primavera e di un certo “masticabile” glamour. Un tempo riservato agli abitini da neonata, ai cappellini delle Regina Madre, ai confetti della prima comunione e alla maglia del giro d’Italia, il rosa ha oggi invaso prepotentemente il nostro quotidiano: dai PC ultra-chic alle scarpe to die for, (e come dimenticare le deliziose Manolo di Carrie su cui si rompono le acque di Miranda?) dai telefonini con gli strass alle automobili sportive, dai liquori ai barboncini, dalle cravatte agli alberi di Natale, ai frigoriferi ed i grattacieli.
Cosa ci sarà sotto? Un disperato bisogno di ritorno al’infanzia? O la necessità di guardare il mondo attraverso lenti rosa, appunto, per sfuggire da brutture, crisi, responsabilità? O non si tratta piuttosto di un’ inarrestabile urgenza di sdrammatizzare e di prendersi meno sul serio? Le stesse domande emergono davanti ai quadri di Vania. Il rosa impera, è il fil rouge anzi rose di tutti i lavori.
Così come i vari personaggi (ha abbandonato, in questa mostra, l’ossessione dell’autoritratto) i cui volti esasperano espressioni di stupore, meraviglia, piacere birichino.
Ci viene quindi da sorridere davanti, per esempio, alle tante Trilly, alla motociclista in sella ad una Harley Davidson particolare, ma poi il sorriso si congela: ci accorgiamo che le situazioni volutamente surreali rappresentano degli stage teatrali architettati per fuggire al quotidiano. Gli attori, decontestualizzati dall’ambente circostante attraverso il fondo rosa piatto, recitano da soli, accompagnati solamente da accessori domestici: un’asse da stiro, delle spugnette lavapiatti, uno scopino per la polvere e gli immancabili guanti di gomma gialli.
Ciò che rimane è una impressione simile a quando si assaggiano i marsh mallows per la prima volta: enormi, morbide, dolcissime e stucchevoli caramelle che si annientano sulla lingua appena si mischiano alla saliva lasciandosi dietro la sgradevole sensazione di un’aspettativa, un sogno mozzato sul nascere. Non lasciatevi illudere, quindi: anche se son rose non è detto che…

----------------------------------------------------

"Desperate Housewives?" di Luigi Matromauro
testo scritto in occasione della personele presso la Galleria Globalart di Noicattaro (BA) 


Vania ha un’intuitiva capacità di riuscire a sapere posizionare delle relazioni tra gli oggetti del quotidiano e le cose del mondo, offrendo allo sguardo la duplice appartenenza dell’essere femminile.
L’ambientazione delle opere ha come scenario lo spazio rassicurante delle mura domestiche di una normale abitazione borghese. La sorpresa e l’inevitabile stupore che ne deriva, è dato dalla disposizione di un nuovo ordine degli attrezzi e cose dell’abituale uso giornaliero; questi assumono un valore differente, mediante il trasferimento di senso dato da un’abile e sottile ironia, vi è per cui grazie al meccanismo dell’analogia, il richiamo a qualche altra significazione.


L’artista è consapevole che l’appartenenza ad una vera codificazione va oltre la pura razionalità del calcolo, ovvero da quel “pensiero che calcola e che non vede, nel rapporto con le cose, altro senso che non sia il loro uso e il loro impiego”, Umberto Galimberti, Idee: Il catalogo è questo, pag. 27, Ed. Feltrinelli, Milano.


Il termine ironia, deriva dal latino ironia, dal precedente greco eironéia che significa “interrogazione”. L’artista con il suo interrogarsi, supera il semplice punto di domanda, mette in atto un distacco da quei limiti della quotidianità; suggerisce nuovi rapporti e relazioni.
Vi è il confronto con l’abitudine, dal latino habitus = “disposizione”; l’artista crea una vera e propria nuova disposizione, ottenendo un ordine diverso; entrando così di diritto nell’appartenenza della suggestiva sfera delle potenzialità – non stiamo ovviamente davanti ad un semplicistico gioco del fantasticare, vi è mostrato con estrema consapevolezza, uno spiraglio sulle infinite possibilità – Vania ci invita a cercare nell’oggetto, la vera bellezza che in verità è custodita nelle cose, secondo Heidegger, l’opera d’arte ha una indiscutibile capacità, quella di farci riconoscere l’autentico significato delle cose, individuando “la cosa come tale”.
Vi è una sottile provocazione, data dal filo conduttore del paradosso, ovvero quel sapere “essere contro l’opinione comune”. Gli scenari domestici sono ricchi di autoironia e abilmente colorati da una dolce sensualità.


L’artista si mette in gioco, perché è lei l’artefice di tutti gli episodi che ci propone, la cucina può divenire la scena di un crimine, o il tavolo da pranzo si trasforma in una zattera. Uno dopo l’altro ci troviamo a percorrere un viaggio suggestivo, un tragitto ricco di rimandi e connessioni, capaci di farci estraniare dalla quotidianità, dove fortunatamente altro non può accaderci che rimanere stupiti… per concederci in seguito alla seduzione della meraviglia.

In questa rassegna Vania supera lo scenario domestico, offrendoci della “rivisitazioni” di alcune opere d’arte, nonché capolavori del passato.
È sicuramente un valore aggiunto alla tematica e al percorso artistico culturale, raggiunto dall’artista; una piccola acrobazia coraggiosa, l’inserimento del manufatto quotidiano nelle icone storicizzate della pittura. Questa operazione non è da confondere con le provocazioni artistiche del Dadaismo, con la complicità della sua personale ironia, viene sottolineata una contaminazione tra microcosmo e macrocosmo; ovvero tra la storia di ciascuno di noi e la storia dell’umanità.
Discretamente ci viene ricordato che ciascuno di noi è chiamato a dare il suo contributo al cammino dell’umanità, e Vania con la sua pittura lo dona con indiscussa onestà culturale.

------------------------------------------------------

2008

testo critico di Igor Zanti scritto in occasione della mostra personale: "un giorno di ordinaria pulizia" - Wannabee Gallery

...Non mi era mai capitato di scrivere per Vania Elettra Tam anche se conosco da tempo il suo sguardo elfico e il suo lavoro. Tempo fa ho visto alcune sue tele della serie Assorbita dai lavori domestici- attualmente in mostra alla Art Fusion Gallery di Miami - e mi avevano colpito moltissimo per diversi fattori, primo fra tutti l’ironia che trapela dal lavoro, ironia combinata in maniera spiazzante con un raffinato gusto neofigurativo che sfiora in alcuni casi l’iperrealismo.
Difficilmente si trova un artista con tali qualità tecniche e attenzione al particolare che scelga di metterle al servizio di un linguaggio ironico ed irriverente. Mi ha ricordato, sotto questo aspetto,l’atteggiamento di alcuni artisti che, all’indomani della promulgazione delle norme sull’arte stabilite dal Concilio di Trento , si sbizzarrirono con irriverenza nelle committenze private, creando dei veri e propri capolavori che, in alcuni casi, superarono per qualità e raffinatezza le committenze pubbliche.
La serie di tele che viene presentata in Un giorno di ordinaria pulizia è un’evoluzione della ricerca inaugurata con Assorbita dai lavori domestici, evoluzione che ha portato l’artista ad una analisi più approfondita degli spunti che ha colto nella realizzazione delle sue precedenti opere.
Il campo di ricerca della Tam è delimitato dalle mura domestiche, dai ritmi alienanti e solitari della quotidianità, dalla dimensione casalinga della donna,imensione che spesso assume un sapore claustrofobico. Vi è, in questo senso, un profondo desiderio di fuga, una necessità di abbellire o trasformare in modo “artistico” la propria quotidianità, di rincorrere un coniglio bianco che permetta di conoscere un mondo parallelo, un’alternativa immaginaria e salvifica.
La cucina, il bagno, il salotto, la camera da letto, e gli strumenti quotidiani che accompagnano la casalinga nella ripetitiva ritmicità dei lavori domestici, si trasformano per dar vita ad una plausibile irrealtà, dove ogni scena acquista un sapore epico, poetico e teatrale.
Un mondo, quello immaginato da Vania Elettra Tam, dove è concesso a chiunque, con pochi mezzi e molta fantasia, di sentirsi dea o diva, santa o peccatrice, popolana o regina.
La Tam non lascia nulla al caso e compone le sue tele con una maniacale attenzione per i particolari e per la definizione degli interni, dove ogni elemento è scelto e studiato seguendo un complesso sistema di riferimenti, rimandi e nessi logici che ricordano da vicino la complessità iconografica della pittura fiamminga.
Non bisogna però farsi ingannare dall’ironia e dalla geniali trovate della nostra artista: Vania, che presta in maniera enigmatica i propri tratti somatici alle protagoniste delle sue opere, si nasconde dietro un velo di leggerezza, dietro al sorriso che increspa le labbra mentre si osservano i suoi lavori, spinta dal pudore di non dichiarare la drammatica realtà che si cela all’origine della sua ricerca.
La vera protagonista dell’opera della Tam è la solitudine, una solitudine quasi tattile che spinge alla follia, che invita a desiderare a tal punto la fuga da creare una realtà parallela ed epica dove, per una volta, si possa essere protagonisti e non anonimi spettatori.
L’eccezionalità e l’unicità del lavoro di Vania Elettra Tam, tralasciando per un momento l’alta qualità formale, risiede proprio nel difficile equilibrio che l’artista è riuscita a creare tra un linguaggio che predilige la cifra espressiva dell’ironia e una ricerca contenutistica che veicola temi dolorosi come quelli della solitudine e del ruolo della donna in seno ad alcune particolari realtà culturali e sociali...

-------------------------------------------------

testo d'introduzione del catalogo "un giorno di ordinaria pulizia"
di Silvia Pettinicchio
(gallerista Wannabee Gallery)

Vania Elettr(ic)a Tam

“17 pollici” è stato il primo quadro che ho visto di Vania. Era il 15 febbraio del 2007, il giorno dell’inaugurazione della Wannabee e ricordo che Vania teneva la sua opera sotto il braccio perché l’aveva appena portata in visione ad un gallerista qui in zona Brera. “Lasciamelo qualche giorno” le dissi e così lo esposi per un periodo in galleria.
Vi era ritratto il volto di una donna davanti allo schermo di un computer. L’unica fonte di luce in mezzo ad un nero violento era quella artificiale del monitor del PC. O almeno così mi era parso, perché poi osservandolo meglio mi accorsi che dall’oscurità dello sfondo, emergevano dei puntini chiari: erano le fessure di una tapparella abbassata. Quella donna, in pieno giorno, se ne stava chiusa in una stanza. Al buio.
Clausura forzata o volontaria? Solitudine ricercata o disperata?
Me lo chiedevo ogni volta che mi cadeva lo sguardo sul quel volto, e forse se lo domandavano anche i visitatori della galleria che inevitabilmente si soffermavano davanti a quel dipinto.
Gli occhi e la posa della donna, statica e protesa verso il computer, unico legame possibile col mondo esterno, sono di una sincerità disarmante. Non si può non rimanerne avvinti. Umanamente.
Questo succede senza scampo a chiunque si avvicini alla pittura della Tam e la spiegazione è semplice: lei vi si offre, totalmente, in maniera non filtrata. I quadri di Vania sono il suo specchio, il riflesso diretto dei suoi umori, dei suoi stati d’animo, del suo benessere o malessere. Nessun altro artista , tra quelli che conosco, ha lo stesso coraggio.
Alla serie di opere battezzata “Luci-A”, a cui “17 pollici” appartiene, fa seguito un nuovo ciclo pittorico in cui al buio, al silenzio, alle luci artificiali, alle pose immobili ed ai volti impregnati di solitudine si contrappongono interni illuminati dal sole e pieni di rumori, figure colte nel momento di massima tensione muscolare e in contesti di ironici surrealismi domestici. E’ ancora lei la protagonista, l’attrice, il soggetto ma anche l’oggetto della propria osservazione. Ma il suo linguaggio ironico diventa codice universale.
E’ per me un onore ospitare la prima personale di Vania Elettra Tam a Milano e di averle dato l’opportunità di esporre contemporaneamente una parte dello stesso ciclo pittorico anche a Miami, nel periodo di Art Basel Miami Beach.
Sono orgogliosa del tempo che mi ha dedicato, della fatica condivisa per la preparazione della sua personale, degli scambi di consigli durante le telefonate quotidiane. Ma soprattutto sono orgogliosa della amicizia di questa “creatura speciale”, capace di darsi e mettersi in gioco completamente, ogni giorno, senza riserve. Attraverso la sua arte. Ed i suoi gesti.

-----------------------------------------------------

2007

testo di presentazione alla galleria virtuale SharpCut di Londra
di Alessandra Masolini
(art promoter, London)

Vania Elettra Tam attended Art School in Como and then progressed to the New Art and Graphics Academy of Milan. In order to support her own artistic research she then worked for 13 years as a fashion designer, following in the footsteps of her mother before returning to concentrate fully on her painting.
Recently she has led a dual existence, immersing herself in co-editing the art-magazine FratturaScomposta and exploring, through her art, the language of the female emotional spectrum.
Some of her past works, like the I Put Myself Together series (2004), have been vicariously influenced by her exposure to a fashion-driven environment. By portraying women as crash test dummies assembling and dissembling body parts at will, Vania reflects ironically on how cosmetic solutions such as push-up bras, make-up and plastic surgery simultaneously create, objectify and empower the feminine form, with cyborg-like consequences.
Vania’s latest work is somehow more personal and intimate. Her Luci.A series, shown here for the first time, depicts the solitude, intimacy and fragility of 21st Century existence.
Her vehicle, an ordinary woman in her thirties, wraps herself in a small self-sufficient universe composed of a fridge, a microwave and a coffee machine. There, she either just meditates, or communicates with the outside world through internet and mobile phone. Her solitude is neither sad nor charming, it’s just a momentary personal space, snatched from the pressure of modern life, in which the personal and the delicate still flowers. Her routine, her situation, her thoughts and her solitude are, universally, our own.
Vania Elettra Tam’s paintings have been shown in Rome, Milan, Venice, Naples. For a full list of her solo and selected group exhibitions click here

-------------------------------------------------------

testo di presentazione del ciclo: LUCI.A
di Sergio Curtacci
(docente di grafica e comunicazione digitale ed editore della rivista elettronica d'arte Frattura Scomposta, Bologna)

"luci.a" è l’acronimo che vorrebbe simboleggiare sia una serie di opere pittoriche dedicate alle luci artificiali, sia rappresentare uno stereotipo di donna immersa nella sua quotidiana solitudine domestica."15 watt", "T9", “T 9 2”"17 pollici“, "03-30 a.m.", "180 gradi", "90 kmh", "105 fm“, “5°canale”, “4°piano”, “48 cm”, “220 v”, “250 lt”, “moka 3”, “linea 12-91”, “250 lt”, “4 mq” …sono i titoli scelti dall'artista per questa serie di opere che vorrebbero sottolineare il rischio che stanno correndo gli esseri umani di diventare semplici "strumenti" in mano alla tecnologia, la mente va al computer “Hall 9000” del film 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Computer, televisione, cellulare, navigatore satellitare ed ogni comodissimo oggetto tecnologico offre sì innumerevoli vantaggi, ma provoca anche isolamento, rendendo ogni individuo prigioniero delle mode.
Vania Elettra Tam lavora, come molti artisti contemporanei, avvalendosi dell'aiuto della macchina digitale, crea le scene all'interno delle mura domestiche, sistemando oggetti e luci come in un set cinematografico, dove il copione, la regia ed anche la recitazine sono affidati ad un'unica persona, se stessa.
"Vorrei rappresentare la solitudine, come potrei riuscirci facendomi aiutare da qualcun'altro?" Una volta scelta l'immagine e deciso il taglio, l'opera viene disegnata a carboncino sulla tela e sucessivamente dipinta con colori ad olio. In questa serie prevale il nero perchè l'artista vuole rappresentare frammenti di vita notturna, descrivendo l'insonnia provocata dall'alienazione tecnologica e sottolinendo, attraverso gli squarci di luce artificiale, la solitudine della vita contemporanea.
Le luci che si scorgono nelle opere, non hanno la funzione di agevolare, ovvero non sono quelle dell'abajour il cui scopo potrebbe essere quello di favorire la lettura, o quelle di un lampadario, il cui compito prevalente è quello di illuminare uno spazio, no, queste destabilizzano, ipnotizzano, schiavizzano... Sono luci emanate da oggetti elettrici o elettronici, che una volta entrate nel nostro quotidiano, a poco a poco se ne impossessano con la loro invasività, fino a divenire indispensabili, irrinunciabili, compagni "artificiali" della nostra fragile e solitaria esistenza. Anche quando, in alcune opere, "Luci.a" esce di casa, cerca rifugio vicino a qualche fonte di luce, rigorosamente artificale, perché solo così si sente protetta.

-------------------------------------------------------

testo di presentazione per
un blog dedicato agli artisti contemporanei
di Augusto Marchetti
(artista, Siena)

Vania interpreta la donna con le sue sofferenze dolori e malesseri cercando in qualche modo di rivalorizzare e "ricomporre" la sua figura come nei suoi "manichini" "imposti" dalla contemporaneità , intercambiandogli braccia, gambe, testa, occhi, dalla serie "mi ricompongo" per inserirla in un contesto irreale in una sorta di posizionamento temporale per poi di nuovo trasmigrare e ritrovarsi nella sua veste tradizionale "Assorbita dai lavori domestici" in una serie di "quasi" "monocromi grigi" che evidenziano tutte le fatiche quotidiane intraprese fra le mura domestiche, spiandola nel suo "privato", ora alle prese con una lavatrice ....poi a governare il bagno,......e ritrovarla in improbabili incontri su divani per dialogare con una moltitudine di se "stessa" e rivedersi nella sua femminilità riscoprendosi donna, in "Sdoppiamenti" , "se telefonando", "ti amo da impazzire ti amo da morire"......e infine ritrovarsi sola a fare la spesa "single" o illuminata dalle luci artificiali di un computer o un televisore , di un frigo aperto per dissetarsi,e in fondo alla giornata scoprire sotto le lenzuola un letto spoglio di un'amore che non c'è e allungare la mano verso l'ultimo spiraglio di luce artificiale per spengnere la notte. "Luci artificiali"

-------------------------------------------------------

2006

testo di presentazione per la mostra
"La donna animale" di Viterbo
di Vincenzo Giulio Farachi
(critico d'arte, Roma)

Donne nel baratro della quotidianità. Vania Elettra Tam si aggira con sguardo auto-ironico, divertente e divertito, fra le piccole alienazioni dei propri strani giorni, nel microcosmo feroce ed ostile delle ore ordinarie e perse, dove consueti oggetti ed incombenze comuni diventano strumenti di uno stillicidio torturante, trappole accidentali ed insidiosissime che fagocitano corpo mente e volontà. E dove il ripetersi insistente delle situazioni, delle fisionomie, dei menages è lo sfondo autistico su cui si dipanano vite intere e singoli momenti , dove trovano incubazione e culla tutte le paure, le viltà, i rimorsi ed i malesseri di una contemporaneità omologata e conformata. Allora l’ironia della pittrice aiuta a non drammatizzare troppo, ad assumere il giusto distacco, ed al tempo stesso a guardare dritto in faccia ogni condizionamento ed ogni convenzione. Per non farsene divorare.

-------------------------------------------------------

testo di presentazione alla
Fondazione Bevil'acqua la Masa di Venezia
di Sergio Curtacci

Nell’Arte il metodo ed il concetto dovrebbero andare sempre di pari passo e Vania Elettra Tam questo non lo dimentica. Nelle sue opere mostra una buona tecnica di realizzazione che col tempo va sempre migliorando, dimostrando una maturazione nel segno e una maggior sensibilità per il colore, ma senza mai trascurare di esprimere tutto il suo pensiero.
Prendiamo ad esempio le opere della serie “amiche su misura” o delle “assorbite dai lavori domestici” o le “Ti amo da impazzire…ti amo da morire, tecnicamente mostrano un miglioramento rispetto alle tele realizzate precedentemente, forse perché inserite in un contesto realistico. La scelta dei colori, la cura dei dettagli, la tecnica di prim’ordine fanno sì che queste opere s’accostino al miglior figurativismo contemporaneo.
Nella serie “Se telefonando…” il color rosso fiammingo accostato ai caldi toni del marrone crea atmosfere di altri tempi, come certi ritratti del quattrocento, ma non foss’altro per la presenza del telefono cellulare, che ci riproietta immediatamente nella contemporaneità, strappandoci dal sogno e riportandoci alla realtà dei giorni nostri.
Il viaggio si conclude dando uno sguardo ad una delle ultime tele realizzate dall’artista, “Box Her” dove la tecnica più che in altre opere, si sposa armoniosamente con il pensiero, L’opera raffigura una donna boxeur in guardia, pronta a disputare il suo match, essa raffigura, in modo neppure tanto velato, la lotta continua contro le avversità della vita, un combattimento costante nel tentativo che la donna possa riacquistare, agli occhi dell’uomo, il ruolo che le compete in questa società.
La parte concettuale delle opere di Vania lascia affiorare, un senso di solitudine e disagio esistenziale, una condizione umana che probabilmente la tocca, ma che forse, secondo l’artista, riguarda tutte le donne.
Questo è ciò che e’ possibile evincere dalle opere di Vania Elettra Tam e che esprime anche in modo autoironico, comunque un’ironia dal retrogusto spesso amaro.

-------------------------------------------------------

2005

testo in catalogo della mostra personale
"ArteFatta" di Como
di Carlo Ghielmetti
(critico d'arte, Milano)

«We are standing here, exposing ourselves, We are showroom dummies, We are showroom dummies»...
Ho voluto che fossero le parole di una canzone dei Kraftwerk, uno dei gruppi musicali simbolo della rivoluzione tecno degli anni Ottanta, in cui si narrano le avventure dei manichini da esposizione, a fare da colonna sonora e da guida nell'analisi delle opere di Vania Tam. Una sorta di distorto desiderio sinestesico di associare le sensazioni dei colori e delle forme alla musica 'artificiale', quale quella elettronica, formando così un tutt'uno con i soggetti ritratti sulle tele.
Già perché quello che Vania Tam rappresenta è un mondo popolato da automi la cui rigida anatomia è composta da pezzi che si interscambiano con grande facilità e naturalezza. 'Terminator' mutanti con il volto umano e che dell'uomo scimmiottano le espressioni più curiose e a volte stupite.
L'orizzonte che Vania raffigura è però squisitamente autoreferenziale. I soggetti hanno, infatti, le sembianze fisionomiche dell'artista stessa. Ed è proprio analizzando quest'aspetto che improvvisamente ho sentito sfuggirmi qualcosa. Quello che Vania Tam inseguiva, infatti, non era solo un risultato puramente formale. C'era qualcos'altro che pareva mancare alla realizzazione del mio puzzle mentale; qualcosa di più profondo; qualcosa di più nascosto.
«We're being watched, and we feel our pulse, We are showroom dummies, We are showroom dummies»...
Balza immediato all'occhio, infatti, che il mondo che Vania riporta sulle sue tele appartiene a una realtà intima, in un desiderio di autoreferenzialità che non è semplice vanità da Narciso. Sarebbe stato troppo banale per crederci. Già perché Vania Tam lavora – e forse gioca – su un doppio registro. Da una parte, c'è una forte autoanalisi che rivolge al proprio io. Quasi in una sorta di seduta psicanalitica, dipinge e dà voce a tutti i suoi stati d'animo più inquieti. 'Mi ricompongo…' – è questo il titolo di una delle sue serie - urla la sua voglia di cambiamento, sia essa momentanea, di riscatto da un malessere, da un dolore, da una sofferenza, o esistenzialmente più profonda. E allora va bene cambiare i propri 'pezzi'... ora un braccio, ora una gamba, ora un occhio per vedere la realtà in un altro modo e fingersi attori di una scena, così come i manichini, cambiando abito, danno sfogo alla creatività e al messaggio pubblicitario che viene, loro malgrado, imposto.
Dall'altra, quella di Vania è una pungente quanto efficace critica alla società consumistica, quella che richiede dai suoi partecipanti un'omologazione assoluta a dei clichè prestabiliti, e che impone dei bisogni indotti ai quali si deve sottostare, pena l'esclusione dalla riserva sociale della maggioranza. Vania ha ben presente questa realtà. Una realtà, forse, cui lei si sente vittima, ma in questo caso anche terribile carnefice.
L'artista che è in lei coglie tutto questo e lo rappresenta con una pittura cruda, piatta, caratterizzata da campiture di colore nette, e si spinge fino alle espressioni più grottesche, solo momentaneamente mitigate dagli atteggiamenti stupiti dei volti, ma senza grande speranza di risolvere una situazione di per se stessa ineludibile, se non in una dimensione altra che appartiene alla fantasia e al sogno.
We start to move, And we break the glass, We are showroom dummies, We are showroom dummies»...
I manichini che rompono le vetrine e si riversano nelle strade c'introducono nella serie della 'Sedia rossa', un ponte, una cesura tra quello che è stato e quello che sarà – forse – la carriera di Vania Tam. Una serie di tele che simbolicamente segnano il passaggio tra il mondo artificiale e quello reale. "Certo un sogno, che altro?", diceva Von Hoffmansthal. E ben venga il sogno, dunque! Un sogno che liberi dall'alienazione e che ci conduca altrove, in una realtà altra, in una realtà forse più quotidiana ma davvero nostra.
«We step out, And take a walk through the city, We go into a club, And there we start to dance, We are showroom dummies, We are showroom dummies...»
Ed è qui che troviamo i personaggi di Vania, ora non più manichini, non più automi, non più Terminator mutanti. Nella serie dei 'divani', umani incontrano - finalmente - umani, sebbene tutti conservino come proprio segno distintivo, l'indistingubilità e l'inafferrabilità fisionomica dei volti. Un'umanità però che ha riconquistato i propri luoghi, i propri spazi, la propria geografia dell'anima. Ed è qui che risiede la loro vittoria; che è anche poi anche la nostra, perché tutti noi, in fondo, siamo showroom dummies, showroom dummies...

-------------------------------------------------------

testo d'introduzione alla mostra ArteFatta
di Sergio Gaddi
(assessore alla Cultura di Como)

Nel tratto realista delle figure di Vania Tam si legge sempre un’invenzione, un guizzo, un punto di vista non convenzionale ma al tempo stesso armonico che fa luce sugli universi dell’artista.
L’elemento della sorpresa e dell’imprevedibile deriva da un’intuizione che ha il sapore del vero, dove i corpi dipinti non sono astrazioni concettuali ma espressioni materiche che esprimono la forza della vita e della sensualità.
Vania Tam conserva l’esperienza di tanti anni di disegno e traccia un percorso pittorico nel quale la tecnica torna finalmente ad essere la base di una sperimentazione efficace, dove l’interesse per le indagini formali, sia quelle interne alla dinamica della superficie dipinta, sia quelle che analizzano la spazialità esterna, non possono vivere senza una scrupolosa assimilazione delle tecniche tradizionali del disegno.
Su queste basi si staglia un universo femminile che la Tam lega alla propria immagine ripresa, disegnata, duplicata, proposta e riproposta. Le figure che a tratti ostentano una sicurezza quasi virile proiettano all’esterno i desideri quasi incoffessabili dell’artista, materializzando nel quadro l’oggetto e la presenza di sé.
Nel gusto della scomposizione e della ricomposizione della realtà, cristallizzata nella fisicità dei corpi già delineati nelle prime esperienze giovanili, si legge una presenza forte del colore, quasi ad accompagnare una sensibilità che si esprime nelle esplosioni della passione di donna. Il tema della ricerca dell’identità appare centrale, e una leggera e sottile inquietudine affianca la naturale fascinazione che i quadri esprimono di fronte ad un primo piano di lettura, che però non distoglie l’attenzione dagli ambiti del metaforico e dell’allusivo che il percorso narrativo strettamente personale di Vania Tam esprime.
L’attenzione del Comune di Como al lavoro degli artisti contemporanei è un elemento fondamentale della strategia culturale che affianca all’organizzazione dei grandi eventi d’arte la volontà di sostenere in modo concreto, con spazi e risorse, la comunità degli artisti emergenti, comunità della quale Vania Tam è parte integrante.

-------------------------------------------------------

testo di presentazione delle opere "Mi Ricompongo" alla galleria PiziArte di Teramo
di Donatella Lanciotti
(Critico d'Arte, Teramo)

"Smontarmi e rimontarmi.
Se un corpo è perfetto, è innaturale.
E' un corpo da ripensare, da misurare.
Un corpo che sta lì, freddo ed inespressivo
Senza calore, privo di emozione.
Un corpo frutto dello studio di se stesso.
Un corpo è fatto di pezzi, io sono fatta di pezzi.
Non importa chi c'è dentro.
Importa come uso queste braccia, queste gambe, queste mani.
Mani che quotidianamente operano manutenzione su questo corpo.
Mani che ignorano l'anima.
Nell'immagine riflessa di me quest'anima non c'è.
L'anima non si vede nel gesto abitudinario e meccanico.
Non si esprime dentro, ma fuori
inesorabile si confessa nel colore che mi circonda.
Colore pieno ed intenso
La mia anima non ha sfumature.

Immagino se potessi misurarlo
scomporlo,
colpirlo ed aggiustarlo
Che altro è questo corpo
se non una palestra di colpi, di scuotimenti,
scossoni, urti,
da cui preserva il cuore?
Se potessi davvero proteggermi con questo guscio corporeo
scheggiarlo, batterlo,
subire strappi e lacerazioni
misurare l'entità del danno emotivo
e poi,
freddamente
cambiare il pezzo e ricominciare...
A camminare. Ad usare le mani. Ad abbracciare."

-------------------------------------------------------

2004

testo di presentazione delle opere "Mi Ricompongo" a Como
di Vincenzo Guarracino
(Critico letterario e scrittore, Como)

Sosteneva il filosofo Nietzsche che l’arte è il prodotto dell’unione di due elementi: un grande realismo e una grande irrealtà. Vania Elettra Tam, a dispetto (o in virtù, dipende dai punti di vista) della sua età artistica ancora felicemente giovane e avventurosa, nella sua pratica creativa, almeno quella più recente, questi due fattori dimostra di saperli già manovrare con disinvoltura e padronanza, sia a livello tecnico che concettuale, esercitandoli sul fantasma del corpo (anzi, addirittura, del proprio corpo), sull’oggetto cioè primario dell’esistenza e consistenza di ognuno come soggetto dotato di volontà e reattività, come una sorta di antidoto ed esorcismo al vuoto e al nonsenso.
E’ realista quanto basta, applicandosi a un esercizio di assoluta fedeltà rappresentativa, senza concessioni ad altre intenzioni e invenzioni che non siano inscrivibili all’interno di una rigorosa riconoscibilità della figura umana e di quanto ad essa appartiene e compete.
E’, al tempo stesso, irrealista avendo coraggiosamente intrapreso un essenziale percorso di ricerca in se stessa della propria “verità”, che la porta ad esporsi senza imbarazzo come exemplum di un processo di progressivo snaturamento e svuotamento del soggetto delle sue più specifiche qualità umane (sensibilità, senso critico), avvertito e patito oggi più di sempre sulla scena della società contemporanea dall’individuo, uomo o donna che sia, in nome di un’assoluta omologazione agli algidi modelli di successo più vulgati.
Forte di risorse tecniche abilmente controllate, assieme a una coscienza lucida e determinata del proprio ruolo come donna e come artista, Vania costruisce in questo modo un discorso in cui in giusta dose si mescolano e vicendevolmente si commentano compiacimento e distanziazione, piacere estetico e ironia, in un gioco formale che, se anche potrebbe risultare temerario per l’alto rischio comportato dall’audacia dell’autoesposizione nella variazione praticamente infinibile del modello rappresentato, appare al tempo stesso non poco seducente e intrigante per il fatto stesso di proporsi attraverso la pratica dell’autocitazione in chiave di ricupero quasi di memoria antropologica insidiata, in una sorta di riconsacrazione e sacramentalizzazione del corpo e delle sue funzioni, oltre che delle ancor più essenziali qualità intellettuali e spirituali.
In effetti, è proprio questa scelta ardita, l’autorappresentazione, che attraverso la ripetizione ed invenzione sul tema finisce per liberare il corpo stesso dalla condizione di medium facendolo diventare generatore di pensieri formali continuamente nuovi e sorprendenti in un processo di infinitizzazione, che, a dispetto della sua apparentemente piana leggibilità e semplicità, si rivela alla lunga sovradeterminato, non meno di quanto per definizione sono sovraderminate le rappresentazioni dei sogni.